X Ed. Concorso di Scrittura creativa “Percezioni di vita antica nel mio vissuto”: Lefebvre

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Gennaio 31, 2023
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TERZO PREMIO: alunne Alviani Aurora, Cimmino Sophia, Di Ruscio Lucia, Di Vaio Ludovica, Eramo Lucrezia, Eramo Letizia, Gabriele Eden, Spica Giulia.

Istituto Comprensivo Sora 3 – Scuola secondaria di primo grado “Edoardo Facchini” – Classe IIID

Docente referente: prof. ssa Di Piro Claudia

Lefebvre

È una fresca giornata di ottobre e dei passi leggeri percorrono un viale contornato da un giardino folto e ben curato, tutto riconduce a quel luogo.

Un posto ben tenuto per la parte esterna, intorno ad esso i suoni della natura riecheggiano nelle orecchie, come il ronzio di un piccolo insetto che ti vola attorno. Il vento trasporta con sé le foglie dando vita ad un piccolo vortice che si muove al suono del suo stesso fruscio. I raggi del sole si riflettono sulle vetrate dello storico edificio, oggi un ristorante: LeFebvre. Esso riesce sempre ad affascinare e far tornare indietro nel tempo, facendo immaginare e rivivere momenti che hanno segnato la storia del nostro territorio. Juliet percorre tranquillamente con la sua famiglia il vialetto che la divide dalla soglia del ristorante in cui avrebbe trascorso il classico pranzo domenicale. Mentre avanza immersa nei suoi pensieri di adolescente, si sofferma a guardare una signora anziana che le dà l’impressione di sentirsi sola e di provare nostalgia per un qualcosa che le si para dinanzi: una piccola altalena dal legno rovinato probabilmente a causa dello scorrere del tempo. Incuriosita Juliet, le si avvicina con garbo, lei è assorta, incantata come se proteggesse segreti nascosti al mondo circostante. Arrivata quasi ad affiancarla, anche Juliet si perde ad osservare il pezzo di legno, che mosso dal vento tende a dondolare, producendo un cigolio fastidioso.

-L’altalena… pensa fra sé la ragazza. -Chissà a quanti bambini ha regalato felicità o strappato un sorriso la sola idea di osservare il cielo a pochi passi, con le gambe in aria e il naso all’insù. Chissà quanti brividi che dalla schiena giungevano al collo e quanta adrenalina scorreva nelle vene dando loro un senso di libertà! L’altalena…. Poi Juliet si accorge che l’anziana signora la guarda annuendole, come se le
stesse leggendo dentro. -Lei conosce bene questo posto? -domanda curiosa Juliet. -Ahimè conosco questo luogo meglio di casa mia -asserisce la vecchietta. -Davvero?? Mi dica di più, la prego, sono sicura che ci sia tanto da raccontare -chiede gentilmente la giovane . -É una storia lunga, ma credo molto interessante e piena di emozioni da rivivere, ripercorrendo quel vecchio sentiero, diventato oggi pieno di germogli colorati e freschi che racconta il nostro passato -spiega la signora invitando Juliet a sedersi.
-Questo posto ricorda tante storie, leggende, favole narrate al chiarore di
una candela -a quelle parole Juliet rimane stupita, cerca di coglierne il significato ed incitarla a proseguire. Dunque lei continua a narrare. -Fino a poco tempo fa, qui, si trovava una fabbrica che produceva carta, sfruttando le acque del fiume Liri. La maggior parte del ceto medio lavorava in questo luogo dove la vita, con il passare degli anni, diventò sempre più difficile.
-Eh? Cosa? Non capisco, c’era una fabbrica qui? -domanda confusa Jiuliet -Dai, facciamo un tuffo nel passato… -Nel 1812 qui, ad Isola del Liri Superiore, vicino al fiume, è nata la cartiera Lefebvre, fondata da Carlo Antonio Beranger e poi venduta nel 1822 a Carlo Lefebvre che la ampliò e modernizzò. Isola Del Liri in quel periodo era un paesino in espansione anche grazie allo sviluppo della produzione cartaria che sfruttava le acque fredde e purissime del Fibreno per migliorare la qualità della carta e dare impulso ed energia agli opifici. Pensa, Isola del Liri era un centro importantissimo per la produzione della carta nell ‘800. -Davvero?
-… le fabbriche però, a quei tempi, erano un po’ come delle “prigioni” il cui
orologio era il carceriere che controllava che gli operai non si sedessero fino a che il turno lavorativo non fosse terminato. Tutto ciò provocava ai lavoratori molte difficoltà e anche molti dolori fisici. L’aria era polverosa, umida, insalubre, pesante, piena di vapori e povera di ossigeno. L’olio delle macchine rendeva lercio il pavimento,lo compenetrava e c’era un odore di rancido unito ad altro. Tutto era sotto controllo e per accertarsi che gli operai non si fermassero, si aggiravano dei sorveglianti che controllavano che il lavoro non si fermasse. Le macchine dettavano il ritmo, spinto dalla forza del vapore e per questo nessuno poteva concedersi pause. Le donne, in particolare, continuavamo a lavorare in tutte le condizioni, anche incinte, non c’erano diritti per nessuno, non ci si poteva assentare per troppo tempo altrimenti si veniva licenziati. Non era raro che una donna la sera si trovasse al lavoro e il mattino dopo partorisse in fabbrica, dando alla luce il suo bambino tra i macchinari, la polvere e i vapori inquinanti. Questo lavoro causava diversi infortuni, uno frequente era quello della perdita della falange di un dito, ma poteva anche accadere che, un intero dito ,la mano o il braccio venissero afferrati e stritolati dagli ingranaggi. Le parti più pericolose dei macchinari erano le cinghie che trasmettevano la forza motrice. Purtroppo chi veniva afferrato da esse, non aveva scampo, veniva trascinato e moriva. La cosa peggiore, era il fatto che coloro che si infortunavano venivano considerati responsabili del proprio incidente per distrazione. Amareggiata, penso a quanto ingiustizia.
L’anziana signora prosegue col racconto.
-Hai mai sentito parlare delle “stracciarole”.
-Eh?Straccia cosa?-domando confusa.
La signora scuote la testa divertita.-La stracciarola puliva lo straccio:
scrollandolo e arcapandolo, toglieva corpi estranei e sporcizie e poi, raschiandolo con un coltello staccava le fibbie e disfaceva le cuciture.
Infine, classificava il tutto secondo la qualità facendo la cosiddetta “sceglitura”, e gettava gli stracci in uno dei tre settori in cui era suddiviso il
cassone di raccolta: “boni”, “grossi” e “vergati”, ma non finiva così! Gli stracci bagnati, venivano messi a putrefare e rilasciavano gas puzzolente e
calore.
-Wow! Mi scusi, potrei conoscere il suo nome? Domando.
-Oh cara,tranquilla, dammi pure del tu, comunque, io sono April -e mi rivolge un dolce sorriso che ricambio piacevolmente.
-Io sono Juliet-, mi presento.
-E i bambini? Rimanevano da soli?Chi si occupava di loro?

Domando in preda alla curiosità e sempre più impaziente.
-I bambini che non avevano ancora 7 anni, giocavano tutti insieme in una sala e aspettavano che le loro mamme uscissero in pausa per mangiare. L’altalena, questa di fronte a noi, era una delle loro distrazioni preferite, ogni volta litigavano per chi dovesse sedersi lì per primo. Invece coloro che avevano più di 7 anni, erano già impiegati nella manodopera. Ad essi spettava solo guardarla con nostalgia, con ancora quella voglia di vivere l’infanzia finita troppo presto.

A mia sorpresa, April mi dice di seguirla, ci alziamo e ci dirigiamo verso l’interno. Mentre percorriamo l’intero edificio, guardo con interesse i macchinari nel ristorante e li immagino che producono carta,proiettandomi nel passato. Sento il loro rumore assordante, mentre un odore nauseante e
irrespirabile mi avvolge. Le operaie immerse nel loro lavoro, dividono gli
stracci di lino e canapa secondo la “cernita dei cenci”, li lavano una prima volta, poi li ammassano e li mettono a fermentare in vasche di marmo o in tine di legno. Un lavoro fisico e duro! I loro visi lividi e sudati sono solcati dal tempo che scorre.
La voce di April mi riporta al presente -Dove oggi ci sono sale e tavoli pronti
ad accogliere i clienti, tempo fa vi erano panni ammassati, in attesa di essere lavorati. Gli stracci venivano triturati in “pile a pestelli”.
Intanto proseguiamo nell’edificio -Pile a Pestelli?Che cosa sono? Chiedo
assecondando la mia curiosità.

-Le pile erano simili ai mortai, scavati in un tronco di legno duro, nei quali
batteva un maglietto chiodato mosso dall’acqua che sfilacciava il cencio
riducendolo quasi in pasta. L’operazione nelle pile a pestelli veniva ripetuta due volte: la prima triturazione, veniva eseguita nelle cosiddette pile olandesi e dava la “mezza-pasta”, mentre la seconda avveniva mediante le raffinatrici olandesi che davano la “tutta-pasta” che veniva diluita e leggermente riscaldata dopo essere stata imbiancata.

La cosa mi incuriosisce sempre di più. Mentre riprendiamo a camminare,
April prosegue il suo racconto.

-L’impasto però non poteva essere conservato a lungo a causa della
decomposizione provocata dai batteri. Allora, una volta preparata la materia prima, l’operaio immergeva la forma nelle tine asportando uno straterello di pasta, che veniva passato al Ponitore che lo rovesciava su un feltro. Giungiamo davanti a questo macchinario, sembra un piccolo scivolo che collega la macchina al feltro .

-Feltri e fogli alternati venivano poi pressati sotto un torchio e infine i fogli
staccati dai feltri si lasciano asciugare negli spanditoi. Ad ultimo per dare
alla carta consistenza e impermeabilità c’erano l’incollatura e la lisciatura.
La carta pronta per essere usata,veniva imballata e distribuita nei diversi
settori in base all’utilizzo, ed era la classica carta che noi utilizziamo e
utilizzavano ,un tempo, tutti i giorni. Conclude April.

Sono davvero perplessa. Nella mia mente si affollano pensieri, alcuni mi
ricordano l’uso che facciamo dei nostri quaderni, dei loro fogli che vengono
strappati, accartocciati, maltrattati. Poi torno alla realtà e dico:

-Possibile che per fabbricare un foglio di carta,un tempo,occorreva così tanto tempo? Per non parlare delle condizioni con cui gli operai dovevano lavorare. Io non l’avrei mai e poi mai fatto. Per portare due spiccioli a casa avrei dovuto lavorare dieci e più ore, in un ambiente atroce poi! Con la possibilità di contrarre malattie o di staccarmi un dito?
-Ragazza! Quei due spiccioli servivano,servivano eccome! Non era come
oggi,un tempo si pativa la fame,gli alimenti scarseggiavano e il tasso di
mortalità era molto alto soprattutto a causa delle diverse malattie. Mi risponde April alterata.
-E tu invece? Come fai a sapere ciò?E l’altalena che poco fa continuavi a fissare, rappresenta qualcosa di importante per te? Chiedo con più interesse del dovuto. April sorride.
-Raccontami la tua storia. Sono decisa a sapere.
E lei comincia -Sai,sono nata in una famiglia piena di valori e che offriva tanto amore. Eravamo una delle famiglie più invidiate dell’epoca. Di essa mi ricordo, in particolare, quei momenti indimenticabili che ci tenevano uniti, come la torta della nonna, che lei mi preparava sempre e che mangiavo a metà pomeriggio come spuntino, ricordo le coccole della mamma quando la notte di Natale mi raccontava la storia sua e di papà. Nonostante l’avessi già sentita e imparata l’anno precedente, riascoltarla aveva su di me sempre lo stesso effetto. Amavo le storie sussurrate in punta di labbra davanti il camino, le quali riuscivano a scaldarti il cuore. Mia nonna, nata nel 1872, cominciò già a sette anni a lavorare in questa fabbrica, prima di allora passava intere giornate qui,in questo posto a dondolarsi sull’altalena. Essa nasconde tanti ricordi.
Mia nonna Anne lavorò per decine di anni, fin quando la fabbrica non chiuse e dovette provvedere a trovarsi un altro lavoro per mantenere lei stessa e la sua unica figlia, nata nel 1912, quando lei aveva circa 40 anni. Per lei non è stato semplice avere un figlio da accudire, ma quando nacque
mia mamma era al settimo cielo. Penso che mia nonna fosse molto legata a
questa altalena, portava sua figlia qui ogni sabato,come se fosse un parco
giochi per i bambini, qui le raccontava sempre un pezzettino del suo passato e della sua vita in fabbrica.
Quando poi nel 1947 nacqui io questo diventò il mio posto preferito. Ci venivo d’inverno a dondolarmi mentre i fiocchi di neve si poggiavano sulla mia pelle e d’estate quando il sole portava la calda stagione. Mia nonna continuò sempre a raccontare la sua storia,me lo ricordo bene. Erano freddi pomeriggi d’inverno e vicino il camino, mi raccontava le dure condizioni di lavoro in fabbrica,proprio per farmi conoscere il mondo al di fuori delle favole, che la vita non è tutta rosa e fiori, e,per fornirmi una vera e propria testimonianza su tutto ciò che si studia sui libri di storia e spesso anche dettagli importanti che vengono trascurati.
-Wow,che bella storia ti ringrazio tanto April ,non pensavo che dietro un
ristorante si celasse questa dura realtà fatta di sacrifici di uomini, donne e
bambini. Ora però devo proprio andare via, mi aspettano. La ringrazio con affetto e un po’ a malinconia.

-Tesoro non c’è di che, è stato un piacere ed è giusto che voi giovani
conosciate la storia del vostro territorio e di come è nato, in questo caso, il
ristorante Lefebvre.
E’ una storia molto significativa per me, racchiude tutti gli sforzi che un tempo i nostri cari hanno dovuto compiere per portare avanti una loro famiglia. I valori che ci hanno trasmesso sono da conservare e far conoscere anche alle generazioni future per apprezzare un po’ di più la vita che abbiamo e non dare ogni cosa per scontata. Oggi, a differenza di un tempo, abbiamo tutto, ma non è stato sempre così, ciò è stato conquistato col sudore, la sofferenza e il sacrificio, una volta non c’era molto, ma il poco bastava a donare sorrisi e sollievo come questa altalena. Mi risponde. Le rivolgo uno dei miei sorrisi più sinceri.

Quello di April è stato un vero insegnamento, l’avrei lasciata con
una nuova consapevolezza, quella di apprezzare di più ciò che la vita ci offre.
Noi sottovalutiamo spesso il passato, ma senza di esso non c’è presente, senza passato noi non ci potremmo essere.
Il passato è importante, tanto quanto lo è conoscerlo. Ci sono molte persone che hanno combattuto e sono morte per raggiungere i propri ideali e per creare ciò che oggi noi siamo. Il passato lo incontriamo sempre nella vita di tutti i giorni, nel libro di storia, nella statua sotto la quale spesso sostiamo, nella piazza dove ci incontriamo, nella chiesa dove preghiamo, in una vecchia fotografia ,in una maglietta che ora non ci veste più, in un album…
Il passato si ripercuote sul nostro presente. E ora tocca a noi, come hanno già fatto i cari di April e i nostri, costruire il nostro presente che presto sarà passato per le nuove generazioni.

-Mamma mia ora ho davvero tanta fame, che dici andiamo a mangiare
qualcosa? Mi domanda April.

-Sì, in realtà anch’io ho davvero tanta fame,vieni con me, c’è già la mia
famiglia, in quel tavolo lì in fondo,te la presento, anche mio padre lavora in una cartiera,la cartiera del Sole qui a Sora,sicuramente sarà contento di conoscere anche lui la storia che mi hai raccontato e di come nel presente si possano rivivere le note del passato.

Alviani Aurora, Cimmino Sophia, Di Ruscio Lucia, Di Vaio Ludovica,
Eramo Letizia, Eramo Lucrezia, Gabriele Eden, Spica Giulia.

Classe IIID

Pubblicazione elaborati premiati
a cura del Comitato Società Dante Alighieri di Arpino APS


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